Un uomo ebreo sopravvissuto alla Seconda Guerra Mondiale che ne scrive senza parlare di campi di concentramento, SS e... morte.
Il libro di Appelfeld è diverso da quello a cui ci ha abituato la cinematografia americana: in Storia di una vita non vengono descritte situazioni eroiche o epiche, non c'è vittimismo e neanche una dettagliata ricostruzione delle brutture subite. Ed è lo stesso Aharon ad ammettere di avere uno stile strano, rifiutato da più editori e deriso da molte persone.
Dopotutto chiarisce subito che il suo libro "non pone domande né offre risposte" e che "un'esperienza profonda si falsifica facilmente".
Storia di una vita è un testo scorrevole che non soddisfa la
macabra curiosità del lettore e le mille domande che ogni volta nascono spontanee quando si viene a che fare con i sopravvissuti all'Olocausto. L'autore era un bimbo quando venne prima rinchiuso in un Ghetto insieme ai genitori poi in un Campo di Concentramento. Rimane oscura la fine della madre e poi del padre e di come lui-bambino sia riuscito a scappare dal campo e a sopravvivere, da solo, nel bosco per lunghi periodi.In generale però non è stata una lettura deludente, solo come dire... "divagante". Appelfeld ripercorre i periodi post guerra, quelli in cui ha raggiunto Israele e dovuto ricostruirsi un'identità, periodi in cui era totalmente solo al mondo, spaesato e incapace di esprimersi nella nuova lingua o di trovare consolazione nella religione.
La parte finale è dedicata al Circolo, un luogo di ritrovo di sopravvissuti, se così si può dire. Scacchi, libri, conversazioni: mi ha ricordato il baretto in cui mi portava mio nonno da piccola, un ambiente silenzioso ma ricco di vita interiore.
In generale Storia di una vita trasmette una sensazione di rispettabilità e tenerezza. Il titolo mi è sembrato molto appropriato.
Nel libro c'è una menzione al Recinto Keffer - Kaltschund
in cui i bambini venivano buttati in un recinto per essere sbranati da cani affamati
Un'usanza agghiacciante di cui non ero a conoscenza
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