lunedì 12 dicembre 2022

COMANDANTE AD AUSCHWITZ - Rudolph Hoss

Un anno dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, Rudolph Hoss (per tre anni comandante ad Auschwitz) venne arrestato dalla polizia militare britannica, interrogato a Norimberga ed infine inviato in Polonia  dove vene condannato a morte per impiccagione l'anno dopo.

Questo testo lungo duecentocinquanta pagine è la sua autobiografia scritta durante la prigionia e vi lascerà interdetti. Nessun pentimento, una strana compassione, qualcosa di sorprendente per un condannato a morte che ha la possibilità anche di inventare falsi sentimenti per lasciare un più bel ricordo di sé ed invece, la cosa forse più atroce, è leggere un resoconto preciso, asettico e quasi pedante sull'immane lavoro assegnatogli ad Auschwitz ed il suo affanno per provare a riuscire a far funzionare tutto al meglio. E con "tutto al meglio" si intende il processo di sterminio di migliaia di persone al giorno, anche quattromila!!!


Hoss parte a raccontare dalla sua infanzia, dalla sua ritrosia verso gli abbracci delle sorelle ed il rapporto asettico con i genitori. Racconta del suo destino tracciato dal padre che voleva per lui una carriera ecclesiastica ed il suo desiderio invece, fin da giovanissimo, di essere un soldato e di combattere in prima linea. Esercito e cameratismo come unici ambienti in cui si trovava a proprio agio poiché "capace di vivere soltanto in un mondo di doveri rigidi e di rapporti ordinati gerarchicamente", la sua testimonianza fu inaspettata perché mentre gli altri imputati si dichiaravano innocenti o cercavano di smentire i racconti dei sopravvissuti lui si dimostrò molto comunicativo e

desideroso di mostrare la sua conoscenza ed organizzazione dietro il sistema di sterminio degli ebrei. E' proprio questo suo desiderio di lasciare nota delle sue competenze a fare più paura, la descrizione di se stesso come di una persona che voleva fare tutto al meglio anche quando "l'inettitudine dei sottoposti e la cecità dei superiori" gli mettevano i bastoni tra le ruote. Lui che era stato prigioniero politico per sei anni e che sapeva leggere i profili psicologici dei secondini e dei carcerati, che amava l'ordine, che aveva bisogno dell'ordine e che quando Himmler gli comunicò che Auschwitz sarebbe diventato il più grande centro di sterminio di tutti i tempi si preoccupò solo di trovare la soluzione migliore per eseguire l'ordine del suo superiore (stop fucilazioni e gas di scarico e via con lo Zyklon B, rapido ed indolore ma soprattutto estremamente efficace).

L'autobiografia di Hoss è ricca di "dettagli relativi al sistema dei campi di concentramento e sulla prassi di Auschwitz" e, come scrisse Martin Broszat nella nota all'edizione tedesca, mostra come anche le persone comuni possano diventare dei mostri quando si uniformano senza scrupoli ed eseguono ordini pedissequamente. A tal proposito vi consiglio di leggere il libro La banalità del male di Hannah Arendt

La cosa che mi ha sorpreso di più della testimonianza di Hoss è stata l'asetticità del suo racconto, quella che Broszat definì "apatica oggettività"; in tutte quelle pagine infatti non mi è mai sembrato di cogliere del pentimento o della sofferenza "egli è uno di quegli uomini che possono accettare come giuste, ragionevoli e indispensabili, come prescritto dal dovere, le più brutali misure di sterminio su larghissima scala, ma che si scandalizzano e si indignano se sentono parlare di "delitti criminali" e che torcono virtuosamente il naso di fronte alle anomalie sessuali". 

All'interno dell'edizione Einaudi la prefazione è a cura di Primo Levi (Se questo è un uomo, La tregua) che risponde all'ipotetica domanda: "che senso ha ripubblicare questo libro a così tanti anni dalla fine della guerra e dall'esecuzione dell'autore?"

Levi rispose così: "Il primo motivo è contingente. Pochi anni fa ha preso inizio un'operazione insidiosa: il numero delle vittime dei campi di sterminio sarebbe stato enormemente minore di quanto afferma la "storia ufficiale" (alla fine della guerra infatti tutte le più alte cariche tedesche diedero ordine di bruciare tutti i documenti relativi al loro sistema di sterminio e le cifre relative alle vittime effettive possono essere solo ipotizzate nda); nei campi non si sarebbe mai usato gas tossico per uccidere esseri umani. Su entrambi questi punti la testimonianza di Hoss è completa ed esplicita… il secondo motivo è essenziale e di validità permanente. Si spandono oggi molte lacrime sulla fine delle ideologie; mi pare che questo libro dimostri in modo esemplare a che cosa possa portare un'ideologia che viene accettata con la radicalità dei tedeschi di Hitler, e degli estremisti in generale. Le ideologie possono essere buone o cattive; è bene conoscerle, confrontarle e cercare di valutarle; è sempre male sposarne una, anche se si ammanta di parole rispettabili quali Patria e Dovere. Dove conduca il Dovere ciecamente accettato, cioè il Fuhrerprinzip della Germania nazista, lo dimostra la storia di Rudolph Hoss".

Concludo riportandovi il pensiero finale di Broszat: "la vita di Hoss rappresenta in modo impressionante l'abissalità spettrale, eppure tremendamente reale, di dodici anni di nazionalsocialismo. Quest'uomo dalla cultura ridotta, coi suoi ideali confusi, sempre pronto a partire all'assalto, pieno di ingenua fede nelle autorità, che nella sua ottusità spirituale e morale e nel suo zelo ambizioso diviene lo strumento preferito di Himmler per i crimini del regime, e che infine atterrito si rende conto, ma non capisce mai fino in fondo, che il suo adempimento del dovere è stato un delitto, non è un caso psicologico isolato, ma nonostante tutta la sua accentuazione individuale, è l'espressione degli errori, della cecità e della follia che su scala assai più vasta imperarono durante l'epoca di Hitler".  

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