giovedì 29 gennaio 2015

Se questo è un uomo

Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
senza più forza per ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricatevi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa, 
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.

La prima volta che ho letto queste parole era il 1998 e non avevo neanche quindici anni. Faticavo a comprendere il vissuto di Primo Levi o forse non riuscivo ad immaginare il male che milioni di persone hanno vissuto sulla loro pelle. 
Il 27 di questo mese è ricorso il 70° anniversario dalla Liberazione di Auschwitz e ho ripreso in mano Se questo è un uomo; ho faticato a riaprirne le pagine. Perchè con gli anni aumenta la consapevolezza, non solo di quello che è stato ma purtroppo anche di quello che è. L'essere uomo, intendo.
Mentre si onora la memoria perchè è giusto e doveroso non dimenticare, ripenso a
quanta violenza c'è ancora oggi nel mondo e penso a malincuore che l'uomo è davvero un essere cattivo. Non trovo altra spiegazione per i crimini quotidiani perpetrati in tutto il mondo.

E' giusto non dimenticare i morti a causa del nazismo.
E' giusto non dimenticare i morti di Parigi.
E' giusto non dimenticare i morti a causa di Boko Haram, in Nigeria.

Ogni vita ha lo stesso valore, purtroppo non ha la stessa rilevanza mediatica e spesso si ignora che in qualche parte del mondo c'è ancora qualcuno che rivive il gelo dell'anima descritto da Primo Levi.
Che non ha più una casa e magari neanche una famiglia.
Che teme di alzare gli occhi al cielo per non vedere qualche aereo sganciare bombe o qualche drone infilarsi a tradimento.
Che ha paura ad andare al mercato.
Che guarda con sospetto ogni donna o bambina (e soprattutto le sue vesti sotto cui potrebbe nascondersi una bomba).
Che non ha più speranza e vive nel terrore.

Spesso ci dimentichiamo quanto siamo fortunati.

Quando ero in terza media la mia adorata professoressa di Italiano ci diede come compito quello di intervistare un nostro nonno o amico molto anziano. Era il 1995 ed era il 50esimo anniversario dalla fine della seconda guerra mondiale.
Ricordo che ero tutta entusiasta: il mio sogno era di fare la giornalista e pensavo con frenesia alle persone da intervistare, alle domande da fare.
La prima interpellata fu mia nonna Ambrogia, classe 1926. Ricordo che una cosa più di tutti i suoi racconti mi colpì, eccola.
"abitavamo in Giambellino, una zona ad Ovest di Milano. Erano case popolari fatte costruire dal Duce e durante la guerra facevamo tutti la fame. C'erano le tessere per andare a prendere il (poco) cibo e ricordo che il pane aveva uno strano sapore e...pesava tantissimo. I panettieri per rubare aggiungevano della calce all'impasto così il pane pesava di più e ne davano meno. Oltre ad essere cattivo...- Un giorno in cortile ci fu un gran baccano. Vennero delle guardie tedesche e trascinarono via una famiglia di ebrei. Eravamo tutti in casa, avevamo paura ad esporci sulle finestre ma io ero piccola e vidi che li trascinavano urlando in quella lingua strana. Nessuno si oppose e portarono via tutta la famiglia, anche le due figlie piccole. Una era di una bellezza incantevole. Poco dopo vedemmo tornare dal portone altre guardie. Con una tanica di olio in mano. Andavano a portarla alle persone che avevano "venduto" quella famiglia per dell'olio..."

Ricordo che da piccola non riuscivo a comprendere come tantissime persone delle case vicine non si fossero opposte a quel prelevamento forzato, a quella violenza, che nessuno abbia cercato di lottare, di far valere il numero e mi arrabbiavo e mi dispiacevo e non capivo.

Qualche giorno dopo ero decisa a continuare le mie interviste e andai dal papà del Fulvio, un vicino di casa. Ero col mio inseparabile amico Antonio. Carta e penna in mano, entusiasmo alle stelle. Il signore poteva benissimo essere nostro nonno. Con la faccia pacioccosa e i modi lenti. Iniziò a raccontare che era un ragazzino e che lui spesso era anche felice perché non andava a scuola. Noi ridevamo con lui. Poi ci raccontò dei rifugi, di come sotto quei palazzoni dove noi vivevamo ci fossero delle "buche" in cui si infilavano tutti quelli che potevano appena si sentiva l'allarme aereo. E a noi sembrava tutto un'avventura, sognavamo di vedere quei rifugi coi nostri occhi e facevamo mille domande fino a quando finalmente smettemmo di parlare e alzammo gli occhi verso quel "nonno" a cui improvvisamente si erano riempiti gli occhi di lacrime e si era incrinata la voce.

Io e Antonio scappammo. 

Letteralmente.

Avevamo 13 anni e avevamo fatto piangere un signore anziano.
La sua emozione ci aveva travolti e spiazzati. 
Per noi la guerra era un fatto storico letto sui libri, le vittime erano dei corpi che non potevano essere veri da quanto fossero spaventosi, le bombe erano qualcosa da film: di scenografico.

Ma quelle lacrime non erano niente di tutto ciò: erano vere ed erano umane. Io il suo dolore l'ho sentito. E l'ho sentito a cinquanta anni di distanza e questa cosa mi ha totalmente spaventata. Come poteva essere un dolore tanto grande da farlo piangere anche a 50 anni di distanza?!

Ecco per me la guerra sono quegli occhi: la vita che va avanti ma che non sarà mai più uguale.

Quel giorno ho anche capito che fare la giornalista era interessante, era emozionante ma io non ero il tipo adatto ad indagare davvero l'animo umano. Forse non ero pronta a quello che sarebbe potuto uscirne. Il fatto è che le domande erano come una pala che scavava in un terreno sopra cui era stato costruito qualcosa faticosamente. E ogni domanda/palata smuoveva le basi facendo traballare tutto.


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